Sentenza Cassazione n. 31886/2019
Nell’interessante sentenza 6 dicembre 2019, n. 31886, la Suprema Corte individua quali siano i poteri istruttori del consulente tecnico d’ufficio, in quali casi risulti ammissibile una deroga ai limiti stabiliti ex lege e quali conseguenze processuali discendano in caso di travalicamento dei poteri.
Con un accurato e meticoloso percorso argomentativo, i giudici di legittimità ripercorrono i diversi orientamenti giurisprudenziali succedutisi in materia, individuano il più coerente con il sistema e offrono un quadro esaustivo dell’ambito d’azione dell’ausiliario del giudice.
La vicenda
La figlia di una paziente deceduta conveniva in giudizio il nosocomio presso cui la madre aveva subito due interventi chirurgici. L’attrice sosteneva che la vittima non fosse stata adeguatamente informata e che i sanitari non avessero eseguito correttamente il proprio lavoro. In primo grado, la domanda attorea veniva rigettata e, in sede di gravame, veniva rinnovata la C.T.U. Il consulente tecnico d’ufficio acquisiva le cartelle cliniche presso l’ospedale e l’appellante contestava la documentazione così acquisita; nondimeno, secondo il giudicante, la consulenza era valida, in quanto il consulente era stato a ciò autorizzato e tale facoltà rientrava nell’art. 194 c.p.c. Al di là della questione attinente alla responsabilità medica e al consenso informato, la problematica su cui si sofferma la Corte di Cassazione attiene ai poteri che può esplicare il consulente durante la propria attività.
Riferimenti normativi
Di seguito si riportano le norme contenute nel codice di procedura civile relative all’esperimento della consulenza tecnico d’ufficio.
Art. 194 c. 1 c.p.c. secondo cui il consulente tecnico può:
- svolgere le indagini commesse dal giudice,
- chiedere chiarimenti alle parti,
- assumere informazioni da terzi.
Art. 198 c. 2 c.p.c. la norma prevede che, in via eccezionale, il consulente, previo consenso di tutte le parti, possa esaminare anche documenti e registri non prodotti in causa.
Art. 62 c.p.c. secondo cui il consulente compie le indagini che gli sono commesse dal giudice e fornisce i chiarimenti che il giudice gli richiede.
Artt. 90, 91 e 92 disp. att. c.p.c. in materia di “Indagini del consulente senza la presenza del giudice”, “Comunicazioni a consulenti di parte”, “Questioni sorte durante le indagini del consulente”.
I tre orientamenti sui poteri del C.T.U.
Sui poteri istruttori del C.T.U., la giurisprudenza di legittimità è divisa in tre orientamenti interpretativi in ordine alla portata dell’art. 194 c.p.c., rubricato “attività del consulente”. La Corte li riassume come segue.
1. L’orientamento più risalente assegna al C.T.U. il potere di compiere qualsiasi indagine utile per lo svolgimento del proprio incarico; quindi, egli può assumere informazioni, esaminare documenti non prodotti in corso di causa, anche in assenza di espressa autorizzazione giudiziale (Cass. 8256/1987; Cass. 3734/1983). Pertanto, il C.T.U. ha titolo per acquisire elementi purché riguardino l’oggetto dell’accertamento (Cass. 1325/1984; Cass. 3734/1983; Cass. 5388/1977). In conclusione, il consulente può assumere documentazione anche quando i termini concessi alle parti siano ormai decorsi.
2. Il secondo orientamento circoscrive i limiti d’azione del C.T.U. a seconda della tipologia di consulenza:
- nella consulenza deducente, il C.T.U. deve valutare i fatti già accertati dal giudice o quelli pacifici tra le parti e, quindi, non si pone un problema di limiti. Infatti, tale consulenza ha ad oggetto circostanze già dimostrate dalle parti;
- nella consulenza percipiente, il C.T.U. deve accertare delle situazioni di fatto non dimostrate in giudizio e che sono accertabili solo tramite cognizioni tecniche. Secondo l’orientamento in discorso, il consulente non incontra alcun limite nell’accertamento dei fatti, compresi quelli costitutivi della pretesa (Cass. S.U. 9522/1996).
3. Il terzo e ultimo orientamento – adottato con qualche precisazione dalla Corte – ritiene che il C.T.U. non possa:
- indagare su questioni non prospettate dalle parti, perché si violerebbe un duplice principio: quello che addossa alle stesse l’onere di allegazione e quello che impedisce al giudice di valutare questioni non portate alla sua attenzione dai litiganti (Cass. 1020/2006);
- accertare fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione, perché violerebbe il principio dell’onere della prova incombente sui litiganti (Cass. 4729/2015);
In ambo i casi, si violerebbe il principio della parità delle parti, perché, tramite la consulenza, una di queste potrebbe “ripescare” documenti non prodotti a tempo debito per dimostrare il proprio diritto o eccezione.
Per contro, il consulente può:
- valutare scientificamente o tecnicamente i fatti già provati,
- acquisire gli elementi necessari (come misurazioni, stime, analisi) al riscontro di veridicità dei fatti documentati dalle parti,
Inoltre, non gli è mai consentito di introdurre nel processo fatti nuovi o ricercare la prova dei fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione, per come dedotti dalle parti. Solo in due circostanze il C.T.U. può svolgere indagini esplorative:
a) «quando si tratti di “fatti accessori e rientranti nell’ambito strettamente tecnico della consulenza”, con esclusione quindi dei fatti costitutivi delle domande e delle eccezioni» (Cass. Ord. 15774/2018);
b) «quando l’indagine officiosa del C.T.U. sia necessaria per riscontrare la veridicità dei fatti allegati dalle parti e l’attendibilità dei mezzi di prova da esse offerti» (Cass. 26893/2017; Cass. 12921/2015).
Infine, è escluso che il consulente possa acquisire documentazione mai prodotta in corso si causa, in quanto una prova documentale può essere utilizzata solo allorché il giudice ne abbia chiesto l’esibizione ex art. 210 c.p.c. (Cass. 2770/1973; Cass. 24549/2010; Cass. 11133/1995).
Da quanto premesso, discende che:
- l’accertamento dei fatti costitutivi delle domande o delle eccezioni è ad appannaggio del giudice e non del consulente;
- le valutazioni conclusive del consulente sono valide a condizione che anche il giudice, valutato il materiale probatorio impiegato dal suo ausiliario, le condivida (Cass. 6502/2001).
L’orientamento adottato dalla Cassazione
La Suprema Corte ritiene preferibile adottare il terzo orientamento per molteplici ragioni, di seguito riassunte.
Innanzitutto, è l’unico coerente con i principi di:
- parità delle parti di fronte al giudice,
- ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.; art. CEDU; art. 6 c. 3 TUE) [1].
Inoltre, è preferibile sotto il profilo dell’interpretazione sistematica. Le espressioni contenute nell’art. 194 c.p.c. (“indagini commesse dal giudice”, “chiarimenti richiesti alle parti”, “informazioni assunte da terzi”) non devono interpretarsi letteralmente, in quanto troppo ampie. Pertanto, la mentovata disposizione deve essere oggetto di un’esegesi sistematica e resa compatibile con:
- i principi che regolano i poteri delle parti,
- il principio dispositivo,
- le norme sull’istruttoria e sull’assunzione dei mezzi di prova.
L’art. 194 c.p.c. incontra, quindi, due limiti insuperabili:
1) il divieto di indagare su questioni non addotte dalle parti negli scritti difensivi nel rispetto delle preclusioni processuali (diversamente il consulente amplierebbe ilthema decidendum);
2) il divieto di compiere atti istruttori
- preclusi alle parti (come acquisire documenti una volta decorsi i termini di cui all’art. 183 c. 6 c.p.c.);
- riservati al giudice (come ordinare esibizioni o interrogare testimoni).
Infine, depone a favore del terzo orientamento anche l’interpretazione teleologica. Infatti, consentire al consulente di acquisire documenti dalle parti o dai terzi si tradurrebbe in un’interpretatio abrogans dell’art. 183 c. 6 c.p.c.
Le questioni di diritto
La Suprema Corte si trova a dover affrontare tre questioni di diritto:
a) quali siano i poteri istruttori del consulente tecnico d’ufficio e quali i loro limiti;
b) se e quando sia ammissibile una deroga ai succitati limiti, per volontà della legge, per ordine del giudice o per consenso delle parti;
c) quali siano le conseguenze processuali della violazione di tali poteri.
a) I poteri istruttori del C.T.U.: la corretta interpretazione dell’art. 194 c.p.c.
In virtù dell’articolato percorso argomentativo seguito dai giudici di legittimità, si ritiene che la corretta interpretazione della norma relativa all’attività del consulente sia la seguente:
- «le indagini che il giudice può “commettere” a c.t.u. sono soltanto quelle aventi ad oggetto la valutazione (nel caso di consulenza deducente) o l’accertamento (nel caso di consulenza percipiente) dei fatti materiali dedotti dalle parti, e non altri; l’affidamento per contro al c.t.u. di quesiti concernenti fatti mai dedotti dalle parti o, peggio, di valutazioni giuridiche, sarebbe quesito nullo dal punto di vista processuale e, nel secondo caso, fonte sin anche di responsabilità disciplinare per il magistrato» (Cass. S.U. 6495/2015);
- «i “chiarimenti” che il consulente può richiedere alle parti sono soltanto quelli idonei ad illuminare passi oscuri od ambigui dei rispettivi atti, e non possono comportare l’introduzione nel giudizio di nuovi temi di indagine»;
- «le “informazioni” che il consulente può domandare a terzi non possono trasformarsi in prove testimoniali, né avere ad oggetto documenti che era onere delle parti depositare». Le informazioni devono riguardare
- fatti secondari e tecnici, non costitutivi,
- il riscontro della veridicità dei documenti prodotti.
In tal senso depone anche la lettura sistematica delle norme, infatti, l’art. 87 disp. att. c.p.c. non ammette la possibilità di depositare documentazione durante le indagini peritali. Inoltre, quando la legge ha inteso attribuire al C.T.U. il potere di disamina di documenti non prodotti in giudizio, lo ha fatto espressamente, come con l’art. 198 c.p.c.; è proprio dalla suddetta norma, di carattere eccezionale, che si ricava l’impossibilità del consulente di acquisire documenti non previamente prodotti.
Un esempio sui poteri istruttori del C.T.U.
Un esempio aiuterà a comprendere meglio la portata dei poteri del C.T.U.
Poniamo il caso di un giudizio sull’accertamento della responsabilità medica.
Il sanitario ha male interpretato un’immagine diagnostica:
- l’immagine e il referto sono “fatti costitutivi” della domanda, in quanto dimostrativi della diligenza o negligenza del sanitario;
- l’accertamento del grado di accuratezza consentito dal macchinario usato per la diagnosi o la sua tecnica costruttiva costituiscono “fatti tecnici secondari“, come tali accertabili dal c.t.u., richiedendo informazioni alla ditta costruttrice o venditrice.
b) Le deroghe ai limiti del C.T.U.
Individuati come sopra i poteri del consulente, passiamo ora ad analizzare se e quando egli possa derogarvi. Come ricordato, il C.T.U. non può indagare su fatti non dedotti dalle parti né acquisire documenti non ritualmente prodotti.
Tale divieto è inderogabile?
In caso di “deficit assertivi” da parte dei litiganti, il principio per cui il consulente non possa supplirvi è inderogabile. Spetta ad attore e convenuto l’onere di allegazione dei fatti costitutivi della pretesa.
Invece, in ipotesi di “deficit probatori” delle parti, il principio per cui il consulente non possa supplirvi è derogabile in due casi:
1) quando per la parte sia impossibile provare il fatto costitutivo della pretesa, se non attraverso cognizioni tecniche; in tale circostanza, è consentito al consulente indagare su fatti che sarebbe stato teoricamente onere della parte interessata dimostrare (consulenza percipiente: Cass. Ord. 3717/2019; Cass. Ord. 15774/2018, Cass. 20695/2013, Cass. S.U. 9522/1996);
2) quando le indagini del consulente abbiano ad oggetto fatti accessori o secondari, di rilievo squisitamente tecnico, «il cui accertamento è necessario per una esauriente risposta al quesito o per dare riscontro e verifica rispetto a quanto affermato e documentato dalle parti» (Cass. Ord. 15774/2018) [2]
I limiti imposti al C.T.U. dal principio dispositivo e dalle preclusioni istruttorie non sono derogabili né per ordine del giudice né per volontà delle parti.
c) Le conseguenze processuali della violazione dei poteri del C.T.U.
Nel caso in cui il C.T.U. travalichi i limiti dettati dal sistema, la conseguenza processuale è la nullità. Prima dell’introduzione delle preclusioni assertive e istruttorie nel processo civile (avvenuta con la legge 353/1990) si riteneva che la nullità – dipendente dall’aver acquisito documenti mai prodotti –fosse sanata, qualora l’eccezione non venisse sollevata nella prima difesa successiva al compimento dell’atto nullo [3]. Nel tempo, quindi, si era consolidato l’orientamento per cui tutte le nullità della C.T.U. fossero relative e andassero eccepite nella prima difesa utile.
Ebbene, tale impostazione deve ritenersi superata.
Infatti, le norme sulle preclusioni mirano ad attuare interessi generali, pertanto, sia che a violarle siano le parti che il consulente, la loro violazione è sempre rilevabile d’ufficio (Cass. Ord. 16800/2018; Cass. 7270/2008).
Quindi, ne consegue che le nullità in cui può incorrere il C.T.U. possono essere:
– nullità relative, sanabili se non eccepite nella prima difesa utile, ad esempio:
- l’omissione di avvisi alle parti,
- l’omesso invio della bozza di consulenza ai difensori delle parti;
- l’ammissione alle operazioni peritali di un difensore privo di mandato o di un consulente di parte privo di nomina;
– nullità assolute, commesse in violazione del principio dispositivo, non sanabili con l’acquiescenza e rilevabili d’ufficio, ad esempio:
- lo svolgimento di indagini su fatti mai prospettati dalle parti,
- acquisizione dalle parti o da terzi documenti che, pur essendo erano nella disponibilità dei litiganti, non sono stati tempestivamente prodotti.
Conclusioni: i principi di diritto
Alla luce dell’iter argomentativo esposto in narrativa, i giudici di legittimità enunciano i seguenti principi di diritto:
(a) il c.t.u. non può indagare d’ufficio su fatti mai ritualmente allegati dalle parti;
(b) il c.t.u. non può acquisire di sua iniziativa la prova dei fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione, né acquisire dalle parti o da terzi documenti che forniscano quella prova; a tale principio può derogarsi soltanto quando la prova del fatto costitutivo della domanda o dell’eccezione non possa oggettivamente essere fornita coi mezzi di prova tradizionali;
(c) il c.t.u. può acquisire dai terzi soltanto la prova di fatti tecnici accessori e secondari, oppure elementi di riscontro della veridicità delle prove già prodotte dalle parti;
(d) i principi che precedono non sono derogabili per ordine del giudice, né per acquiescenza delle parti;
(e) la nullità della consulenza, derivante dall’avere il c.t.u. violato il principio dispositivo o le regole sulle acquisizioni documentali, non è sanatadall’acquiescenza delle parti ed è rilevabile d’ufficio.
Nella fattispecie in esame, il C.T.U. aveva acquisito documenti non prodotti dalle parti (la cartella clinica), il giudicante non poteva autorizzarlo a ciò, giacché, in tal modo opinando, avrebbe violato il principio dispositivo e le disposizioni sulle preclusioni assertive e istruttorie. Il giudice del gravame, pertanto, avrebbe dovuto valutare se la documentazione riguardasse fatti costitutivi o secondari. Per questo motivo, la sentenza viene cassata con rinvio e il giudice di merito dovrà decidere applicando i principi sopra esposti.
Leave a Comment