Il servizio di Maria Angela Masino, in collaborazione con il dottor Fabrizio Fava, tecnico tessile, esperto in nuove tecnologie dei tessuti, consulente del Tribunale a Potenza Picena, Macerata, apparso sulla rivista BenEssere (novembre 2020) che tratta dallo studio delle molecole a base alcolica alle fibre nate dalla fusione di ioni di argento. La battaglia contro l’infezione è aperta attraverso lo studio dei filati in grado di bloccare le particelle infettive.
Ormai è accertato: il virus contenuto nelle goccioline che evaporano sotto forma di aereosol, depositandosi sui tessuti, può sopravvivere alcune ore, anche più di dieci. Le aziende allora, stanno facendo grossi investimenti per creare stoffe anti-Covid capaci di respingere e di non far filtrare il virus attraverso il materiale.
“Ci sono imprenditori che puntano sull’elaborazione di filati ricavati dal bamboo, dal Kapuk, dalla cellulosa, dai residui del latte, che, pare, siano veri e propri scudi contro gli agenti infettivi. In Svizzera è nata la tecnologia HeiQ Viroblock: attraverso soluzioni d’argento nanometriche (1 nanometro è 1 miliardesimo di metro!) presenti nel tessuto si attivano reazioni antivirali ad ampio spettro perché il rivestimento tecnologico delle nano-particelle copre completamente la trama dei filati”, spiega Fabrizio Fava, tecnico tessile a Potenza Picena, Macerata.
In Italia ci sono imprese che stanno testando molecole antivirali a base alcolica da fissare sulle fibre in modo da distruggere la componente lipidica che riveste il coronavirus e, in questo modo, disattivarlo. Il trattamento può essere applicato alla lana, al cotone, alla seta e per ora la difficoltà è quella di renderlo efficace, affidabile e duraturo, capace di sopravvivere almeno a venti lavaggi sia ad acqua sia a secco. Altre aziende ancora stanno mettendo a punto fibre nate dalla fusione di ioni d’argento e particelle di lipidi in grado di attrarre, incapsulare e neutralizzare quelle del virus. E ancora, sono già in commercio tessuti composti di tre strati: due in seta o cotone davanti e dietro e nel mezzo uno in Tnt (tessuto-non-tessuto) realizzato in poliestere biocompatibile che fa da filtro.
La ricerca sta anche lavorando sulla creazione di stoffe idrorepellenti cioè in grado di respingere le goccioline prodotte durante un dialogo e un colpo di tosse. Negli Stati Uniti gli studi si stanno concentrando sulla possibilità di creare filati che combinano cotone e chiffon oppure cotone e seta o ancora cotone e flanella a maglia strettissima capaci di filtrare le particelle virali tanto quanto le mascherine Ffp2. C’é poi la sperimentazione con il grafene applicato sui tessuti, questo materiale sottilissimo ricavato dallo sfogliamento della grafite garantisce un’alta protezione e copertura dei filati. Inoltre dato che si surriscalda al sole è in grado di auto-sterilizzarsi dopo un’esposizione di un’ora alla luce accelerando così le funzioni antivirali.
Sono davvero efficaci?
Per stabilire l’efficacia di questi prodotti occorre che superino almeno tre prove. La prima è la traspirabilità: il tessuto deve far passare una corretta quantità d’aria ed evitare l’aumento di sudore che può avere un effetto irritante e anche patologico perché favorisce la proliferazione dei batteri. La seconda è l’efficienza di filtrazione che è la misura della resistenza di un materiale alla penetrazione di virus e batteri. La terza è la steriltà: talvolta il prodotto è in grado di filtrare, ma non è sterile e favorisce così la vita dei microbi e dei funghi.
I test hanno dimostrato che soltanto il 10% dei tessuti anti-Covid è risultato efficace su 50 testati e che per essere un tessuto efficace anti-Covid la carica virale deve essere bloccata al 99,98%
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