Made in Italy: un branding sostenibile a prova di norma
Nel nuovo scenario normativo europeo, il “Made in Italy” non basta più evocare sostenibilità: va dimostrato, misurato e certificato.
Nel sentire comune, l’origine italiana è spesso percepita come garanzia implicita di etica e sostenibilità, ma la normativa europea non riconosce il valore reputazionale come sufficiente a giustificare dichiarazioni ambientali.
Molti brand italiani – spesso a buon diritto – rivendicano una produzione di qualità superiore. Ma la qualità percepita non coincide necessariamente con la sostenibilità ambientale dimostrabile. Ad esempio:
- Un capo artigianale può utilizzare processi ad alto impatto se non ottimizzati;
- L’origine italiana non garantisce l’assenza di sostanze soggette a restrizioni REACH;
- La lavorazione locale non implica automaticamente tracciabilità o basso consumo energetico.
Nel nuovo quadro normativo, affermare genericamente che un prodotto “Made in Italy” è sostenibile senza supporto tecnico equivale a un green claim non conforme. Anzi, un claim del tipo “Made in Italy = sostenibilità” potrebbe presto rientrare tra le dichiarazioni ambientali fuorvianti, se non accompagnato da dati oggettivi, misurazioni comparabili e standard normativi. Ciò significa che anche le imprese italiane dovranno dotarsi di strumenti tecnici adeguati.
Identità contro evidenza: il dilemma del brand
Nel marketing moda, la narrativa del territorio ha un peso fondamentale. Dire “Made in Italy” non è solo dichiarare l’origine, ma evocare valori condivisi: maestria, filiera corta, controllo qualità, sensibilità per i materiali. Tutti aspetti che, nel consumatore, generano una percezione di minor impatto ambientale.
Ma è proprio su questa percezione che si concentra l’attenzione del legislatore europeo: se un claim – anche indiretto – influenza le scelte del consumatore, deve essere validabile. La proposta di direttiva Green Claims lo esplicita: qualunque dichiarazione ambientale deve essere fondata su dati misurabili, con metodologia chiara e validazione terza.
Nel caso della moda, il rischio è elevato: confondere l’identità culturale con la prova tecnica. Il Regolamento (UE) 2024/1781 sull’Ecodesign e Passaporto Digitale del Prodotto (DPP) lo conferma: la sostenibilità dovrà essere tracciata, verificata e digitalizzata, non solo raccontata.
Come trasformare un valore culturale in un claim conforme?
Non si tratta di rinunciare al “Made in Italy”, ma di rafforzarne la credibilità. Le imprese possono e devono valorizzare la filiera nazionale, ma supportandola con evidenze:
- LCA (Life Cycle Assessment): per misurare l’impatto ambientale lungo il ciclo di vita del capo.
- PEF (Product Environmental Footprint): per standardizzare il confronto tra prodotti europei.
- Etichette digitali o DPP: per rendere i dati trasparenti e accessibili via QR code o blockchain.
Solo così il “Made in Italy” può evolvere da claim reputazionale a garanzia misurabile. È una sfida, ma anche un’opportunità per differenziare la qualità italiana dalla narrazione abusata di altri marchi meno trasparenti.
Branding e green claim: dal messaggio alla prova
Il legame tra origine geografica e sostenibilità ambientale è stato per anni il cavallo di battaglia della narrazione promozionale italiana. Tuttavia, la fiducia dei consumatori in questi claim sta diminuendo, complice una crescente sensibilità verso il greenwashing. La Commissione Europea ha risposto con una strategia normativa ambiziosa:
- La proposta COM (2023)166, nota come Green Claims Directive, definisce criteri comuni e obbligatori per i green claim volontari.
- Il Regolamento (UE) 2024/1781, con l’introduzione dell’eco-design digitale e del Digital Product Passport, crea una base strutturale per la tracciabilità ambientale.
Senza ripetere nel dettaglio quanto già approfondito nell’articolo “Green Claims nella moda: stop ai claim vaghi”, ricordiamo i 3 pilastri fondamentali che ogni dichiarazione ambientale volontaria, anche la più semplice (“realizzato in modo sostenibile”, “naturale”, “eco-friendly”), dovrà essere:
- Scientificamente supportata (es. LCA, PEF);
- Verificata da un organismo indipendente accreditato (es. secondo UNI/ACCREDIA);
- Trasparente e accessibile, anche attraverso canali digitali (es. QR code, portali DPP, blockchain).
Fine del greenwashing identitario
Espressioni come “più etico perché Made in Italy” o “sostenibile perché locale” rischiano ora di essere qualificate come pratiche commerciali scorrette, se non fondate su dati dimostrabili.
Il documento tecnico SWD(2025)212 evidenzia come tali associazioni possano indurre il consumatore a decisioni errate, se l’origine geografica viene assimilata a un valore ambientale che non trova riscontro nei dati.
Quali sono i rischi concreti?
- Sanzioni amministrative per pubblicità ingannevole;
- Obblighi di rettifica pubblica imposti dalle autorità nazionali;
- Erosione della fiducia verso i brand territoriali;
- Contenziosi con concorrenti o associazioni di consumatori.
Progettare il brand ambientale: dalla narrazione al metodo
La sostenibilità non è più un’opzione accessoria, ma un elemento strutturale del branding. Occorre passare da una logica emozionale e simbolica a una tecnica e documentale. Questo implica:
1 – Analisi tecnica degli impatti
Valutare, tramite strumenti di LCA, PEF o equivalenti, l’impatto ambientale del ciclo di vita del prodotto (produzione, tintura, logistica, uso e fine vita).
2 – Integrazione normativa e compliance ESG
Incorporare gli obiettivi ambientali all’interno dei criteri ESG (Environmental, Social, Governance) del brand. Ogni claim dovrà essere compatibile con i requisiti della Green Claims Directive.
3 – Gestione dei claim su tutti i touchpoint
Ogni canale comunicativo (etichette, packaging, sito e-commerce, post social, DPP) dovrà riportare informazioni coerenti, verificabili e allineate con il fascicolo tecnico ambientale.
4 – Verifica indipendente e fascicolo tecnico
Il claim ambientale dovrà essere validato da un organismo indipendente prima della sua pubblicazione. L’impresa dovrà predisporre un dossier tecnico contenente:
- Specifiche ambientali;
- Metodologie adottate;
- Evidenze scientifiche;
- Fonti documentali.
5- Formazione interna e governance
Le funzioni marketing, CSR, legale e commerciale dovranno essere aggiornate sui nuovi obblighi e formate a produrre claim sostenibili conformi.
Esempio pratico: perché “naturale” non basta
Affermazioni generiche come “tessuto naturale” o “tintura ecologica” sono insufficienti. Serve specificare:
- Composizione chimica e origine tracciabile;
- Metodo produttivo e impatto ambientale (es. consumo idrico, CO2, uso di sostanze pericolose);
- Durabilità, biodegradabilità o riciclabilità, con dati di laboratorio o certificazioni riconosciute (es. ISO 14067, UNI EN 13432).
Progettazione marketing e sostenibilità: claim ambientali da costruire a monte
Uno degli errori più diffusi tra le imprese moda consiste nel trattare il claim ambientale come un contenuto “a valle”, cioè da aggiungere una volta definito il prodotto. La Green Claims Directive, invece, impone un vero cambio di paradigma: il green claim deve essere progettato, non improvvisato.
Questo significa che la sostenibilità non è più solo un vantaggio competitivo da comunicare, ma una caratteristica funzionale del prodotto, da dimostrare tecnicamente.
Tra le nuove competenze da integrare nel settore del marketing non potranno mancare risorse come:
- Environmental Claim Designer: figura ibrida tra comunicatore, analista LCA e specialista normative
- Analista PEF/ISO per il marketing: per costruire claim coerenti con metodologie di calcolo riconosciute
- Brand Strategist con formazione ESG: per orientare il posizionamento sulla base della compliance e della trasparenza
Come esempio applicativo di claim ambientale possiamo suggerire che invece di scrivere “Realizzato con materiali naturali e biodegradabili”, la conformità è racchiusa invece attraverso un claim come “100% cotone organico certificato GOTS, biodegradabile al 96% in 120 giorni (test ISO 20200), con tintura a basso impatto (LCA Allegato 2)”
Questo tipo di dichiarazione non nasce in fase di copywriting, ma richiede un coordinamento interfunzionale tra ufficio prodotto, marketing, R&S e consulenti ambientali fin dalla fase di ideazione del capo o collezione.
Conclusione: dalla reputazione alla verifica
Il Made in Italy non perderà il suo valore identitario, ma dovrà evolversi da simbolo narrativo a marchio verificabile. In un’epoca in cui la fiducia si misura con i dati, l’etichetta “fatto in Italia” dovrà essere accompagnata da evidenze ambientali tecniche, accessibili e controllabili.
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