la figura del fashion designer non esiste senza il mercato, ogni fashion designer sa che il fine di ogni nuova collezione è corrispondente alla vendita dei singoli prodotti moda.
3. L’indipendenza dei creativi
La creatività è un importante strumento di creazione di valore, d’altro canto il lavoro creativo può non trovare un perfetto allineamento con le effettive opportunità di mercato. Rientra infatti nelle caratteristiche del lavoro creativo che l’originalità e l’armonia raggiunte nell’esecuzione sono in sé significativi per il creativo” anche al di là degli esiti economici e di mercato. Ciò non presuppone una frattura tra creativi e mercato, o una retorica del designer come puro creatore, la figura del fashion designer non esiste senza il mercato, ogni fashion designer sa che il fine di ogni nuova collezione è di essere venduto, a Giorgio Armani è attribuita la frase “non è moda finché non è venduta”. In questo senso lo stilista può essere definito fashion designer, cioè vicino alla cultura del designer (la cultura del progetto) che trae la sua ragion d’essere dall’industria e dal mercato, dal fine di progettare un oggetto migliore per il consumatore, che combini, funzionalità, estetica e significati.
La relazione tra percezione del creativo e percezione del consumatore non è però necessariamente univoca. Innanzitutto vi può essere un disallineamento tra gli aspetti che sono percepiti dal pubblico come decisivi e quelli invece percepiti dal fashion designer come fondamentali. In altri termini, il creativo non può prevedere se la sua visione creativa ed estetica sia immediatamente percepibile e corrispondente ai desideri dei consumatori. In secondo luogo, l’attività dei fashion designer è fortemente influenzata dai giudizi e dalle idee che circolano all’interno della fashion business community, trai i colleghi, ”I pari”, in cui si forma la reputazione dello stilista con inevitabili rischi di auto-referenzialità. Del resto, la reputazione del creativo, e quindi la sua capacità di attrazione sul mercato delle consulenze o delle licenze dipende in buona misura dalla sua originalità, è quindi interesse del creativo esaltare gli aspetti di originalità del suo prodotto, portandoli al limite, e in qualche caso superando la accettabilità da parte dei consumatori finali.
La relazione tra le sensibilità dei creativi, interessati all’originalità e alla novità, e quelle degli uomini dell’area commerciale, interessati invece alle indicazioni provenienti dalle vendite non è banale. Le caratteristiche del prodotto devono essere negoziate con i creativi che in generale non sono disposti a vincolare a priori le proprie scelte creative ad un risultato definito preventivamente con gli uomini del commerciale. Nella moda ai creativi, è garantita una autonomia e indipendenza maggiore che ai knowledge workers e ai progettisti in altri settori industriali. La maggiore autonomia è motivata sia da ragioni culturali: l’atto creativo è visto come risposta ad una necessità interiore, che da ragioni economiche: l’originalità che deriva dall’indipendenza dei creativi è il motore delle scelte di acquisto dei consumatori.
Maggiore è il controllo e il coinvolgimento diretto del creativo nelle attività di natura industriale, minore è il rischio che il progetto creativo non trovi un’adeguata trasposizione nel prodotto che è portato al mercato. D’altro canto un forte coinvolgimento del creativo tende a limitarne l’autonomia e l’originalità. Nei prodotti della moda d’altro canto, il grado di originalità è molto variabile, dal grado massimo dell’innovazione provocatoria dei capi presentati nelle sfilate della Haute Couture o delle prime linee degli stilisti, al grado minimo della riproduzione ispirata dai capi di successo della stagione precedente. Esiste quindi lo spazio sia per un apporto creativo il cui tratto principale è l’originalità, che trova nell’indipendenza e autonomia del creativo il principale alimento, sia per una creatività derivata, capace di tradurre gli elementi di originalità che circolano liberamente nell’universo simbolico di un particolare marchio o linea di prodotti e che può esprimersi anche in forme di lavoro non autonome ma direttamente dipendenti, all’interno delle imprese industriali.
Il nodo del rapporto tra creativi e imprese industriali è stato sciolto nell’industria della moda in forme non univoche, con differenze che si sono manifestate nel corso del tempo e hanno contribuito a definire diversi modelli organizzativi e traiettorie nazionali. La prima forma di relazione che ha caratterizzato la moda prima del suo affermarsi come produzione di massa negli anni Settanta è il modello della maison dei couturiers francesi.
Nel 1857 con l’apertura a Parigi dell’atelier di Charles Worth, si realizza una rivoluzione della organizzazione del processo creativo della produzione degli abiti che mette al centro la creatività e l’originalità. Alla professione artigianale del sarto abile esecutore, al servizio di un cliente che decide autonomamente forme, colori e stile dell’abito, si sostituisce quella del creativo che realizza i modelli in anticipo e li propone ai clienti, secondo un ciclo creativo annuale o stagionale. Worth trasforma il mestiere del sarto in una professione creativa (Volonté 2003).
In questo modello il legame tra produzione creativa e produzione materiale è molto stretto ed esclusivo, il couturier stesso è al timone dell’impresa, la distinzione tra creazione e produzione è sfumata, la stessa definizione di couturier riprende, traducendola nel nuovo status creativo, la precedente pratica artigianale che coinvolge un rapporto immediato tra idea e materia. Il modello del couturier rivoluziona la natura del prodotto e la funzione del creativo, ma resta, per quanto riguarda l’organizzazione del processo produttivo, legato, pur su una scala di produzione più grande al modello del sarto artigiano. L’autonomia e del creativo e la coerenza del prodotto con l’idea creativa sono garantite dal pieno controllo del couturier su tutto il processo produttivo.
La dimensione organizzativa è quella dell’atelier, quasi sempre di dimensione limitata che orgogliosamente proclamava il rifiuto del metodo industriale e seriale a favore del pezzo unico o al massimo delle serie limitatissime. Un approccio che ben si adattava ad un mercato estremamente selezionato e limitato, che al suo massimo dopo la seconda guerra mondiale contava poco più di quindici mila clienti facoltosi in tutto il mondo, in cui l’originalità insieme ad una artigianale ossessione per la perfezione sartoriale e dei materiali avevano un ruolo del tutto dominante.
Una formula che ha cercato di superare i limiti del modello della maison è quella che prevede un rapporto di mercato, formalizzato da un contratto di licenza, tra il creativo, lo stilista, e l’impresa industriale. E’ un modello che si è presentato sotto diverse sembianze. Una è quella, che gli studiosi di marketing chiamano del licensing opportunistico, adottata da molti couturier francesi per superare i limiti della ristretta dimensione del mercato raggiungibile e della cronica incapacità di produrre utili. In questo modello, il potenziale comunicativo dell’aura di esclusività e originalità della griffe della maison è stato posto all’incasso in settori diversi da quello core dell’impresa creativa, che possono essere contigui, ad esempio accessori di vestiario, lontani, è il caso ad esempio dei profumi, o anche molto lontani come acque minerali, piastrelle, aerei o barche. Il padre del licensing nella moda è Christian Dior che nel 1948 sottoscrisse con un produttore americano di calzetteria femminile il primo contratto di licenza, rifiutando il pagamento di un fisso di diecimila dollari per l’utilizzo della griffe e preferendo la formula delle royalties basate su una percentuale sulle vendite. Formula che divenne lo standard nella moda. Lo stesso approccio è stato seguito anche da molte griffes del prèt à porter italiano, a partire dalla metà degli anni Ottanta, un esempio riguarda le licenze relative alle piastrelle realizzate, tra gli altri da Laura Biagiotti, Enrico Coveri, Krizia, Missoni, Trussardi, Valentino.
Nel rapporto di tipo opportunistico la relazione tra creativo e industria si stabilisce sulla base di una logica di massimizzazione dei rendimenti a breve termine, il progetto creativo è posto in secondo piano a favore di un ruolo quasi esclusivamente comunicazionale della griffe, la licenza riguarda il patrimonio di immagine della griffe, più che quello di originalità.
Una diversa formula di contratto di licenza è quella definita di licensing strategico e che si è affermata in modo più compiuto, come già anticipato più sopra nell’introduzione, negli anni Settanta in Italia, inaugurata dal Gruppo Finanziario Tessile che nel 1978 ha sottoscritto con Giorgio Armani un contratto di licenza per lo sviluppo e la produzione di una linea di abbigliamento che portava il nome dello stilista. In questo caso il contratto non riguardava il semplice utilizzo del nome, né si configurava come un rapporto di consulenza creativa, ma si articolava in un complesso intreccio di compiti e di responsabilità ben definita tra la parte creativa e quella industriale?
L’accordo tra Armani e il GFT ha definito un modello su cui si è costruita una generazione di rapporti tra creativo ed industria: rapporti solidi, improntati ad obiettivi di lungo periodo in cui il licenziatario si assume il carico di tutte le attività manifatturiere, il licenziante si afferma come società di servizi progettuali e di comunicazione. Il modello del rapporto basato sul contratto di licenza è il risultato di una convergenza di interessi tra attività creative ed industriali, con orizzonte di breve periodo per il licensing opportunistico e di lungo periodo nel licensing strategico, ma con una netta separazione di compiti, regolata da rapporti contrattuali di mercato. Questo modello si accompagna ad un rischio di disallineamento tra progetto creativo e prodotto industriale più elevato rispetto a quello del couturier. Maggiore nel caso del licensing opportunistico che in quello del licensing strategico in cui le parti esercitano un controllo reciproco più stringente.
Il problema del rischio di disallineamento tra progetto creativo e realizzazione industriale e di conflitto tra creativo e manager può essere gestito attraverso specifiche regole inserite nel contratto di licenza. Tuttavia, per tutto quanto non definito da rigide norme previste dal contratto di licenza, in genere il licenziatario mantiene il controllo, o in ogni caso un’influenza significativa, sulla effettiva qualità del prodotto, sul pricing, sui rapporti con i canali distributivi, sui tempi di consegna, il licenziante a sua volta determina oltre alle linee originali del progetto creativo le forme e i contenuti delle attività di comunicazione.
Dal punto di vista della gestione del rischio, i vantaggi per entrambi i contraenti derivano, oltre che dal mantenimento della autonomia e della originalità dei progetti creativi, dalla possibilità di diversificazione il licenziatario può acquisire un portafoglio di licenze e il creativo un portafoglio di licenziatari e dai minori costi di uscita e chiusura del rapporto di collaborazione, rispetto ad una soluzione basata su maggiore integrazione, ad esempio attraverso una joint venture o un’acquisizione.
La formula del contratto di licenza si è mostrata adeguata per tutti gli anni Ottanta, ma alla fine del decennio, lo stesso Armani che ne era stato l’iniziatore e l’esempio paradigmatico, ha preferito seguire un approccio diverso, riproponendo un modello basato su una maggiore integrazione tra creativo e industria. Precorrendo ancora una volta i tempi Armani ha infatti acquisito i suoi principali licenziatari, Simint nel 1989 e Antinea nel 1990. Il ritorno ad un maggior coinvolgimento diretto del creativo nella gestione della attività produttiva avviene in un contesto radicalmente diverso da quello in cui si era sviluppato il modello della maison, è cambiato radicalmente l’ambito diventato quello della produzione industriale su larga scala ed è cambiata la figura stessa del creativo che si è sviluppata in quello di imprenditore dell’industria dei prodotti creativi.
Negli stessi anni in cui alcuni dei creativi della moda si sono trasformati da puri fornitori di servizi in imprenditori industriali, molte operazioni di integrazione sono avvenute anche per via opposta, le griffes sono state acquisite dai licenziatari o da importanti marchi industriali che controllano le fasi produttive.
Tra il 1999 e il 2001 si ha una vera e propria esplosione generale di acquisizioni nell’industrie della moda che hanno coinvolto i marchi più noti e che hanno avuto come effetto un riassestamento del mercato. Un numero non irrilevante di queste operazioni ha coinvolto anche il rapporto tra i creativi (stilisti) e l’industria. Tra le principali operazioni si possono citare, per limitarsi a quelli che hanno coinvolto imprese italiane: l’acquisizione di Valentino da parte di HDP nel 1998 risoltasi in un fiasco e nel successivo acquisto di Valentino da parte di Marzotto e poi del Fondo d’investimento Premira; l’acquisizione delle griffe Romeo Gigli, con lunghi strascichi legali, (1999) e Ferré (2000) da parte di Ittierre, di Moschino da parte di AEFFE (1999), di Alexander McQueen, Balenciaga, Stella McCartney da parte di Gucci nel 2000, di Mila Schon da parte di Mariella Burani nel 1999, di Jil Sander da parte di Prada nel 1999, poi ceduto ad un fondo di investimento nel 2006.
L’evoluzione del mercato della moda dagli anni Novanta in poi ha reso necessario ridurre la componente di rischio di progettazione attraverso un maggior controllo e coinvolgimento reciproco delle parti creativa e industriale, lo sviluppo del modello del fast fashion ha richiesto di rendere massimo il controllo della fase creativa, al fine di velocizzarlo e di allineare tutti gli strumenti attraverso i quali l’impresa comunica con il consumatore, dalla promozione alla distribuzione. Gli uffici stile interni delle imprese del fast fashion sono dei veri e propri reparti di produzione estetica e culturale con centinaia di lavoratori.
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